Volgersi al passato per guardare al futuro, danzando nell’ombra. La danza come tema portante e simbolo del corpo che torna a essere libero, semplice, naturale. Le note riempiono piste da ballo abbandonate, vengono scandite da strobo impolverate e dimenticate in qualche soffitta in mezzo al nulla. Questi brani non vivono di ricordi, ma li prendono per mano e li trasportano in una dimensione nuova, parallela, dove prendono di nuovo forma sotto una luce diversa: sguardi perduti, luoghi talmente lontani nel tempo che sembravano non appartenere più a nessuno, l’eco distante del suono di un vinile che gira e di movenze in preda a un delirio ritmico, quasi come fosse un rituale.
I Venus in Disgrace sembrano volerci dire che il minimalismo ha fatto il suo tempo, ora è il momento del vero ritorno dei synth analogici in tutto il loro accattivante mistero, in un percorso dove il synth-pop che fu di Soft Cell, Twins, Talk Talk, Depeche Mode, New Order, Franco Battiato (quest’ultimo omaggiato con una reinterpretazione di ‘Summer on a Solitary Beach’, realizzata insieme a Simone Salvatori e Francesco Conte degli Spiritual Front) possa immergersi in sonorità più dark wave ad ampio spettro, con le chitarre di Marco De Ritis (ospite a più riprese) a creare un ponte con altre band che hanno finito per influenzare la scrittura di questi brani, come Chameleons, Clan of Xymox, Deine Lakaien, Psychedelic Furs.
Palese anche che i Venus siano cresciuti consumando i cataloghi di Mute, 4AD e Factory: brani come ‘White Desire’, secondo singolo del disco, o ‘Dim Light’, incalzante e seducente al tempo stesso, sono riuscite testimonianze al riguardo, così come la cupissima ‘Watching Down the Spiral’, il brano più spiccatamente goth del lotto, mentre la title-track è la più diretta, gioca con le regole dell’attrazione in modo smaccato come il Marc Almond più irriguardoso, per poi aprirsi a un chorus che ti entra in testa come un mantra e non se ne va più
Oltre alla suddetta cover di Battiato, dalle sognanti atmosfere dove synth-pop e shoegaze duettano con disinvoltura così come le voci di Fabio Babini e Simone Salvatori, l’altro pezzo cantato nella lingua di Dante è ‘Strasbourg 1518’, dove l’enfasi vocale dei primi Diaframma viene avvolta da un manto electro degno degli Orchestral Manoeuvres in the Dark.
Non manca qualche tocco shoegaze negli arrangiamenti di alcuni brani, come ad esempio nell’avvolgente e malinconica atmosfera di ‘The Wind Through the Arcades’ e nella opener ‘Hedda Gabler’ (primo singolo dell’album), quest’ultima grazie anche alla presenza di un gradito ospite come Gianluca Divirgilio, deus ex machina degli Arctic Plateau. Tra le collaborazioni, da segnalare anche la presenza di Bez Yorke, che in ‘Delacroix’ aggiunge un ulteriore tassello al brano meno lineare e più complesso dell’album, dalle melodie sfuggenti e accattivanti al tempo stesso. “Dancefloor Nostalgia” è il manifesto di un mondo che non esiste più ma che, in qualche modo, siamo ancora qui a celebrare. Danzando nell’ombra, immancabilmente.
Volgersi al passato per guardare al futuro, danzando nell’ombra. La danza come tema portante e simbolo del corpo che torna a essere libero, semplice, naturale. Le note riempiono piste da ballo abbandonate, vengono scandite da strobo impolverate e dimenticate in qualche soffitta in mezzo al nulla. Questi brani non vivono ...
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