Un cuore ribelle, una testa da marinaio e mani da ragioniere. Così potremmo presentare Diego Bitetto. Così bravo con le vite degli altri da sembrargli vero, da sembrargli un uomo: il dio dei poveri, il re degli scaltri.
Diego si presenta così, con questo mascherato autoritratto. Attraverso il brano Per sempre con cui apre, in età matura, ma non eccessivamente per non rischiare di gettarsi nell’assurda mischia, il suo disco d’esordio dal titolo Il giardino di Mai.
Una musica che è da leggere come un quadro: tra trucco e bravura. Tra musica classica e canzone d’autore moderna. Con un canto che è voce spianata e che si arrampica abilmente sulle note magistralmente suonate; Diego infatti risulta diplomato in pianoforte classico al Conservatorio di Genova. E pure poeta in età giovanissima, nemmeno adolescente, con un libro scritto in forma di sonetti, oggi introvabile dal titolo I senza nome. Che sembra una saga familiare fin de siècle. Originario da una cultura letteraria di alto lignaggio.
Scrive da sempre infatti il Bitetto e insegue con le parole gli artisti e le loro creazioni. Circolano suoi versi in giro per mostre d’oltremare e paiono strane confessioni di un marinaio, di un capitan solo in cerca di perdono che ha vissuto mille vite: sei un disgraziato che, senza famiglia / se non s’è perso non s’è mai trovato / e ora tenti un timone e una chiglia / con mani marinaie da impiegato / ma non ti viene, non ha preso il giro / questo tempo neanche di sventura / tempo di niente, tempo di sutura / tra un grande esordio e un dimesso ritiro.
E son poesie che sicuramente son rientrate nelle sue canzoni, nelle sue storie in musica che giocano con la vita, con la famiglia, con le leggende della morte rossa di EA Poe. Nume tutelare del suo immaginario.
Una moderna musica da camera cantata come fosse leader solitario di un quartetto immaginario. In cui suona tutti gli strumenti, tutti i pianoforti e li sovraincide e li sovrappone. Fantasma del palcoscenico. Fantasma di una perduta canzone d’autore e a tratti ritrovata da solo in questo teatro sperduto nella sua tenuta di Montabone nell’astigiano con l’occhio rivolto al mare di Genova e alle sue strade vecchie di deandreiana memoria. Dalla sua Savona verso un altrove tutto da percorrere.
Bitetto gioca con il racconto della sua vita e della sua infanzia, a tratti se ci permettete ricorda il primissimo Tricarico con quelle sue canzoni stralunate e naif, come fosse una leggenda e questa distanza di sguardo e narrativa entra nella sua musica e nel modo stesso suo di cantare, che pare epico, teatrale, distanziato quel tanto che basta per sembrare perfetto: “Penso di aver scritto la mia prima canzone, Il Giardino di Mai, che poi avrebbe dato il titolo al disco, tra i 16 e 18 anni, o comunque dopo aver pubblicato per il tramite di Firenze Libri I senza nome, una raccolta di 52 sonetti in endecasillabi a rime alternate nelle due quartine iniziali e incatenate per triadi nelle due terzine finali che parlavamo sostanzialmente dell’amore per una mia vicina di banco del Liceo. Il libro era scritto in italiano del trecento e non era molto immediato a leggersi. Quando glielo regalai, alla vigilia dell’orale della Maturità, lesse le prime due righe, non ci capì nulla, mi sorrise e mi disse: “Bellissime”.
Il disco è, quindi e senza scampo, una raccolta delle canzoni migliori che ho scritte, musicate, arrangiate e composte dai 16 ai 37 anni: in realtà, la scelta delle migliori contava 35 brani, ma tutti mi hanno consigliato di non fare un cd con 35 tracce, per cui ho chiuso gli occhi e ne ho prescelte 15”.
E’ strana la sua fisionomia, curata con l’onoterapia che cura i dolori e la pazzia e sana i creditori. Musica d’autore che balla il walzer perenne. Che si ispira e nasce da alcuni grandi lieder. Per comprendere che dietro alla vita su tela c’è la vita vera del tempo che va. Come canta in Due quadri di Chagall.
Sono favole in musica e vanno avanti fino alla fine. Canzoni che giocano a nascondino, avanzano e si ritraggono, delicate e curiose, leggere e scanzonate, fedeli ad una poetica di altri tempi che racconta “il sogno di un giardino più bello del mondo dove ognuno possa correre secondo il suo tempo”.
Ed è uno degli esordi più sorprendenti del momento. Anche perché le parti strumentali sono composte e intese per Grand’Orchestra e pianoforte solista: ogni voce sviluppa un tema a se stante, nel solo rispetto delle armonie comuni. L’insieme delle voci crea la linea melodica che viene percepita e che accompagna la voce. Grazie ad un pianoforte elettrico, a un bravo tecnico e alle mille campionature disponibile sui programmi musicali della Apple Diego Bitetto suona tutto con le sue due mani. “D’altro canto, non avevo soldi a sufficienza per stipendiare un’orchestra vera e ho dovuto fare pace con ambizioni troppo grandi”.
Tracklist:
Un cuore ribelle, una testa da marinaio e mani da ragioniere. Così potremmo presentare Diego Bitetto. Così bravo con le vite degli altri da sembrargli vero, da sembrargli un uomo: il dio dei poveri, il re degli scaltri. Diego si presenta così, con questo mascherato autoritratto. Attraverso il brano Per ...
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